«Les jeux sont faits». E invece il sipario non si chiude qui: anche se non siamo più bambini, giochiamo ancora. Non sono certo gli stessi giochi, svaghi e piaceri o gli stessi giocattoli, dato che i nostri sono più costosi o impegnativi e hanno un altro aspetto esteriore, ma alla fine continuiamo a competere, a rappresentare, a puntare su qualcosa, ad accostare forme geometriche tra loro (ogni riferimento a Candy Crush non è puramente casuale). E soprattutto, non smettiamo di rimetterci in gioco, di avere un po’ di quella autoironia che rende tutto più leggero, meno serio, proviamo a superarci, sapendo che anche se non vinciamo, il gioco vale la candela. Il senso dello stare al gioco è anche espressione del modo in cui ci autorappresentiamo, della consapevolezza che abbiamo sul nostro modo di lanciare i dadi. Non sembra, ma il gioco è una delle cose più reali, non per nulla nessuno vuole restarne escluso, a guardare da fuori gli altri che si muovono secondo regole da saper sfruttare a proprio favore. Se quando eravamo piccoli la mamma ci diceva: «Finché non finisci la cena, non ti alzi dal tavolo per andare a giocare», oggi, studenti universitari lo replichiamo: «Finché non finisci il saggio, non ti alzi dal tavolo per andare a cena». Perché se non ci buttiamo nel pieno della vita e la prendiamo con le sue regole e le sue pedine, tutto diventa un lavoro da spuntare sulla nostra to-do-list. Se invece accettiamo di sederci al tavolo, ci rendiamo conto che non stiamo giocando solo con le carte che abbiamo in mano, ma con la persona che vediamo allo specchio.
Caroline Bianchi
Pubblicato sull’Universo, giornale studentesco universitario indipendente, dicembre 2019.